Un punto di vista forte, critico sulle piattaforme digitali sarebbe claudicante se non affrontasse il tema del gioco, meglio della dimensione ludica della partecipazione ai social network e alla guerriglia mediatica contro gli algoritmi di Facebook. Certo, appropriarsi degli algoritmi vuol dire conoscerli e saperli usare, forzarli, metterli in crisi al fine di bloccare il flusso ordinato delle informazioni e dei contenuti veicolati dalle piattaforme digitali. Ma sono sempre tattiche e momenti di conflitto circoscritti, che hanno bisogno di discrezione per essere efficaci. Sono parte, ma non esauriscono la soluzione di come avviare processi di conflitto e di autorganizzazione. Il gioco è inoltre parte integrante dell’etica hacker che si è affiancata, senza dunque sostituirla interamente, a quella protestante nel garantire stabilità al capitalismo delle piattaforme. Sarebbe altresì interessante capire come il gioco, la gratuità entrano in relazione con la renaissance del confucianesimo in Cina o l’induismo in India. Gli stratosferici investimenti nella ricerca e sviluppo decisi da Pechino sono certo finalizzati al passaggio dal made in China al Design in China, ma altrettanto pressante è stato l’impegno del governo cinese nel promuovere i centri culturali su Confucio, all’interno della retorica della Società dell’armonia, dove l’etica hacker è piegata a una politica di potenza e dove l’attitudine ludica del lavoro lascia il posto al lavoro come mezzo per elevare lo spirito e per far crescere il conto in banca. Sta di fatto che l’etica del lavoro che emerge dal capitalismo delle piattaforme è si carica di jouissance, ma vincolata alla produzione di plusvalore relativo. E’ un doppio movimento tra oltrepassamento dei limiti posti dal regime di accumulazione e produzione normativa di un nuovo campo dove collocare i comportamenti collettivi e individuali operanti nel patto luciferino esistente nel capitalismo delle piattaforme tra gratuità delle app, cioè dell’accesso ai social network in cambio della cessione dei propri dati personali che fanno accrescere i Big data. Da una parte, quindi, materia prima del capitalismo delle piattaforme sono anche dati, informazioni, contenuti prodotti nella comunicazione on line. E’ noto che i Big Data vengono assemblati, elaborati, spacchettati per campagne pubblicitarie personalizzate, ma anche per essere venduti a chi è interessato ad usarli per altri business. E’ questo l’altro versante dove la distinzione tra materiale e immateriale, tra virtuale e reale perde la sua capacità di indicare polarità nel modo di produzione. C’è immateriale, perché il materiale è indispensabile. L’energia, i server, i computer, la localizzazione dei data server definisce un rapporto dinamico tra imprese e potere politico. Possiamo dire, senza cadere in una indebita sovrapposizione, che avviene le stesse dinamiche attinenti gli spazi infrastrutturali e la scalarità interstatale che caratterizza la logistica nel rapporto con gli stati nazionali. Prendiamo l’energia. Per gestire i Big Data ne serve molta: i computer devono operare a una certa temperatura e devono essere protetti. Da qui la necessità di collegamenti sicuri alle reti elettriche e l’uso congiunto di polizia “ufficiale” e vigilantes. In questo caso il tema della militarizzazione del territorio torna ad essere rilevante. Interessante è a questo proposito l’autonomia energetica perseguita da Google, attraverso l’uso del solare e del fotovoltaico. La società di Mountain View ha collocato i suoi data center statunitensi vicino a dighe gestiti da privati o ha acquistato lotti estesi di terreno per installarvi pannelli fotovoltaici. La retorica green di Sergej Brin e Larry Page ha fondamenti molti pragmatici, perché Google non vuol dipendere dagli Stati nazionali per avere energia elettrica. E anche per contenere i costi derivanti dalla quantità di energia necessaria e per le oscillazioni del petrolio, carbone e biocarburanti. Attorno alla sicurezza, invece, il discorso è altresì articolato. A guardia dei data center ci sono vigilantes, polizia, anche se le procedure per il controllo del territorio sono spesso quelle definite dalle imprese. La polizia è un guardiano che risponde all’impresa. Un altro caso di frammentazione della sovranità. Come è stato evidenziato nel saggio Confine come metodo di Sandro Mezzadra e Brett Neilson l’implosione della sovranità ha nei confini il suo contesto “naturale. Ma allo stesso tempo c’è un confine poco esplorato, anche se citato nel saggio sopracitato: è quello che presidia la separazione da economia informale e economia formale, e che è da considerare il contesto dove vengono definiti processi di soggettivazione, di sfruttamento e di governance del lavoro vivo nell’economia della Rete. Il capitalismo delle piattaforme è quindi il lato presentabile in società del capitalismo predatorio, di quella sempiterna accumulazione originaria che caratterizza il mondo contemporaneo. In altri termini, parlare di capitalismo delle piattaforme significa parlare del capitalismo en general. Ognuna delle caratteristiche che emergono andrebbero messe in relazione con modelli organizzativi, mission diversificate, varianti nel rapporto con la dimensione statale, come acutamente sottolinea Giorgio Grappi nel saggio sulla Logistica (Ediesse). Facebook è infatti cosa diversa da Google, ma ha molto in comune con Twitter, così come Netflix ha poco a vedere con Istagram ma può essere equiparato a Amazon. Ma ognuna di queste imprese globali è cosa diversa dai produttori di software per gestire la logistica su scala mondiale. Gli elementi unificanti ce ne sono ed emergono solo se si parte dall’analisi del lavoro vivo, dai suoi conflitti, dai suoi processi di autovalorizzazione. Il «Manifesto per la costruzione di una comunità globale» di Mark Zuckeberg può essere considerato l’espressione politica più aderente allo spirito di quel «capitalismo delle piattaforme» sul quale si concentra l’attenzione di una nutrita schiera di studiosi, opinion makers, come testimonia il recente volume di Nick Srnicek Platform Capitalism (Polity, il manifesto del 14 febbraio 2017). Il documento di Zuckeberg illustra in maniera dettagliata la strategie imprenditoriale di Facebook, che ha come materia prima l’elaborazione della comunicazione, delle emozioni, dei contenuti di oltre un miliardo di persone. COME È NOTO, il social network gestisce una mole enorme e in continua crescita di dati che servono successivamente come data base per la vendita di spazi pubblicitari e per strategie personalizzate di messaggi pubblicitari. Non è però passato inosservato il fatto che il «manifesto» è uscito negli stessi giorni della pubblicazione del decreto del presidente Donald Trump che vieta l’ingresso negli Stati Uniti alle donne e agli uomini nati in alcuni paesi islamici. L’USCITA DI ZUCKEBERG, e un testo di critica sottoscritto dalle maggiori imprese della Silicon Valley, ha fatto scrivere dell’opposizione delle imprese operanti in Rete verso la politica del presidente statunitense. In molti hanno scritto che le imprese delle Rete hanno deciso la loro scesa in campo. Ma non è certo la prima volta che queste come altre imprese si comportano come «soggetti politici». La rappresentazione emergente vede da una parte i «globalisti», cioè le imprese protagoniste del capitalismo delle piattaforme, che propongono politiche cosmopolite di difesa dei diritti civili delle donne, delle «minoranze» e dei migranti; dall’altra un immaginario popolo statunitense. Due modi di concepire lo sviluppo capitalistico e di governo della cosa pubblica che entrano in conflitto, dando vita a inedite e contingenti «alleanze». I globalisti assieme ai movimenti delle donne, dei migranti. I protezionisti che invocano l’unitarietà e l’omogeneità del popolo e del «made in Usa», ignorando il fatto che gran parte dei manufatti – materiali o digitali – vengono prodotti in luoghi certo non americani.
Sta di fatto che la tensione tra vocazione globale del capitalismo e difesa delle imprese locali è salita negli Stati Uniti a livelli inimmaginabili solo alcuni mesi fa. È certo una semplificazione che coglie tuttavia un elemento di verità. Il suo limite sta semmai nell’incapacità di fare i conti con un elemento centrale del capitalismo delle piattaforme, sintetizzato efficacemente dalla studiosa Tiziana Terranova in un testo pubblicato on line a commento del documento di Zuckeberg: Facebook: come molte altre imprese della Rete, il «capitalismo delle piattaforme» punta a «un governo delle vita», cioè delle emozioni, degli stili di vita, delle relazioni sociali che ogni singolo uomo o donna ha dentro e fuori la Rete (www.technoculture.it/category/blog/). abbiamo estratto una sintesi da due articoli dell'autore raggruppati da EuroNomade col titolo IL CAPITALE DELLE PIATTAFORME E LE PIATTAFORME DEL CAPITALE, a cui si rinvia per la lettura integralegiovedì 28 gennaio 2021
INCURSIONI NEL CAPITALISMO DELLE PIATTAFORME
Il potere della gratuità nell’economia globale Cosa vuol dire «PLATFORM CAPITALISM»? Innanzitutto precarietà dei rapporti di lavoro, proliferazione delle forme contrattuali, forte differenziazione e nuove forme di gerarchia nella divisione sociale del lavoro, ruolo di governo della finanza nell’economia mondiale, la città pensata come uno indistinto, poroso spazio produttivo. In altri termini parlare di capitalismo delle piattaforme vuol dire analizzare il regime di accumulazione contemporaneo
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